giovedì 15 ottobre 2009

Poem

I.

E allora,
angelo mio,
dimmi tu chi devo essere,
come devo stare,
verso dove stiamo andando,
nel buio e nella luce dei giorni,
nel secolo stanco che trascolora,
nei solchi di vita che malgrado tutto
ci accolgono
ci straziano
per farci germogliare ancora
e ancora

questa vita consuma
brucia
più del pianto
più del mal di testa
più di quelle sere che non sai
più di tutto questo tempo
in cui non mi hai visto
più di tutto quel tempo
in cui non sai
chi fossi o quanto dolore
mi sia passato addosso
più di un disagio
che non sai dire
per mesi e mesi
per anni
e non sai chi guardare
e non sai che dire

ma adesso
rialzare la testa
ti sembra facile?
Liberami,
da questo caos del tempo
da questo vento bastardo
che frange i sogni
dal senso della realtà
che sbriciola le cose

Ma non ci sono angeli?
Solo attori e parrucche?
Caos e casi della vita,
che non impareremo mai,
a leggere?
Che mi vuoi dire in questa mancanza?
Che mi vuoi dire dopo questo tempo
di vuoto pneumatico?

Ancora e ancora cercare
di imparare a vivere
infine?


II.

Ti ho sognata nascosta
nei doppi fondi di questa esistenza
mentre sbriciola e lascia cadere
attimi
come se piovesse
ma invece
è soltanto un altro giorno
dopo un altro
e un altro

Dov’eri quando il sole
scendeva lento
sulla campagna
quando le ombre si
allungavano
quando il tempo non era più tempo
ma aria fresca e profumo
di fiori?

Ti ho cercata oltre la soglia dei giorni
dentro l’acqua salata di molte esistenze
perso nel fumo denso di certi locali
con gli occhi
pieni di lacrime
tra il freddo e i lampioni al neon di certi parcheggi.

Cosa pensai quando
ancora una volta
tardasti
questo non so dirlo,
ero abituato ormai
a tornare a casa da solo,
a sdraiarmi sul letto senza prendere sonno
pensando al volto che avresti potuto
avere e al profumo
di una grandiosa liberazione
dal caos.

Cento e cento giorni,
cento e cento notti,
mentre la voglia cresceva,
ma ancora
la tua immagine attesa
non tradiva che sprazzi
di cielo
o squilli d’uccelli
in volo.

Non pensai a segnare
una strada,
nel caso tu fossi tornata o
un’altra via
tra le nostre esistenze,
confidai, lo ammetto,
nel tuo sesto senso,
nel disegno complesso
della tua folta chioma.

lunedì 28 settembre 2009

Ancora il tempo

ancora il tempo correva sulle lancette dell’orologio
quando si svegliò a trent’anni
e il sole
non pareva lo stesso
e l’estate
ormai alle porte
cambiava i colori del cielo
ancora e ancora
come dieci anni prima
eppure l’odore
dell’aria
era un altro

traversando a lunghi passi le strade
cercava di figurarsi i volti di ognuna
di quelle ragazze

se ancora potessimo salvarci dalle polveri fini del tempo
se ancora ciò che cresce
potesse aprirci un varco verso chissà dove
se ancora oltre il libro potessimo cominciare a vedere
se ancora
il nostro secolo
si volgesse al sereno
allora
solo allora
il tuo sguardo
mutato in cenere
risalirebbe le chine di questa distanza
esploderebbe di cornici floreali sui freddi deserti
abbandonerebbe la risacca
per lasciarsi
un’ultima volta
toccare

ora che il tempo
preme e molla entro tubi sigillati
di lampade neon
ora che l’azzurro non è
che il fioco pallore
di una stanza d’ospedale
ora che la tua pelle
profumata di mare
si fa velo
di fragili nebbie
tutto quello che ti dissi
una sera di maggio
pare poco
e questo
adesso
e poi ancora
scivola via pioggia
sui vetri


scivola via
senza che tu
ancora una volta
– l’ultima?–
possa nuovamente darmelo
a respirare

Era quello il tempo

Era quello il tempo
– lo confesso –
degli amori irrefrenati,
dei lampi d’occhi,
degli sguardi,
di noi intrecciati,
senza pensieri.

Era quello il tempo
– lo ricordi? –
della pura gioia
fisica
di corpi accesi
dei castighi
delle carte scoperte
in cui non c’erano né frasi né parole ma solo
lingue e mani e labbra
sudore – era estate dopotutto –

Era quello il tempo in cui Stan
ancora suonava
una bossanova disincantata
da stomaci forti
mentre lontano inseguiva
– certo, senza rendersi conto –
l’ultimo baluardo di una chiave di violino
stesa sull’ardente brace
di una sigaretta

Era quello un buon tempo per noi
– che buffo ripensarci, ancora eravamo noi –
di messaggi provocanti e di poche parole
di vino bianco ghiacciato e di philipps morris super leggere
erano le bionde sere in cui
guardandoti camminare nuda
verso la porta del bagno
tutto ancora poteva sembrarmi
– e ancora, ancora ti giuro, lo vorrei –
un prodigio.

Era quello il tempo di spiagge bianche e rocce scoscese
acque chiare
era il tempo di annegare
– quante volte mi sono perso nel colore dei tuoi occhi, che tu certo non amavi –
della neve a Vienna
di quel sole e di quel cielo che pungeva i nostri volti tra le calli di Venice (Italy)
e poi
il Natale dai lunghi capelli e rossi che
– ti ricordi quella sera? –
ti vergognavi a mostrare e tenevi
ben stretti
in un cappello di lana.
Solo ora capisco che certo
non avevi torto;
avrei fatto bene anch’io
a darci un occhio
che un giorno
– come potevo soltanto, dico, immaginarlo, in quel tempo che sembrava infinito? –
sarebbero scomparsi di colpo
e avrei dovuto
volente o nolente
ripercorrerne mille e mille volte le incredibili volute e gli improvvisi
cambi di luce.
Era quello il tempo
delle traiettorie che osservavamo da vicino
troppo, troppo vicino per poterne decifrare
anche solo prevedere
in una mano di tarocchi, tirata giù per gioco,
gli esiti ultimi.

Soltanto adesso
– tardi, troppo tardi, in ritardissimo come mille
e mille volte mi hai detto –
solo adesso
che la tua psicologa dispensa consigli sul tuo stretto
personale
solo adesso che tu
mostri segni sul corpo di un dolore che non
mi riguarda per niente
solo adesso che l’estate esita
– anch’io esitai e non fu sempre per un mio colpo d’ali –
torno a stornare la tua immagine tra mille
rigiro tra le mani gli infiniti universi possibili
e alternativi
e mi scopro
in questo infinito desiderio
ogni volta che i Gotan mi suggeriscono
un altro
sempre più stanco
passo di tango.

Vermeriane figure

vermeriane figure e coni d’ombra
illusioni geometriche
invadono il piano di mistiche orali
l’inferno
– questo è certo –
marcia sempre
di bocca in bocca

dietro una coltre di parole si annida
pensoso:
che cosa?

mezzogiorni di un fauno con leggerezza
annegati in
mezzochilo di caffè

la porta
che è ogni
dischiusa
porta
socchiude un controcanto di suoni
gutturali

oggi
senza né giorno né notte
ho imparato a vivere
il parallelismo di certe esistenze

giovedì 12 marzo 2009

Apocalisse e Creazione VI

Il rinnovamento passa sempre attraverso se stessi. In qualunque situazione dovremmo chiederci:"Perché io qui, adesso?". Qualsiasi risposta vale l'accrescimento e l'espansione del proprio sé che deriva dalla domanda. Dare un giudizio su se stessi ha una funzione autopoietica: serve per guardarsi da un passo indietro e aprire un orizzonte di comprensione rispetto al proprio vivere. Giudicare significa creare. Giudicare di sé e del proprio mondo significa crearsi una seconda volta, rinascere.
Il vuoto e l'assenza di senso nascono dalla mancanza di un giudizio, dalla impossibilità di interrogare noi stessi e ciò che ci sta intorno. Rispetto a ciò che siamo e a ciò che facciamo, rispetto cioè alla nostra condizione esistenziale, dobbiamo chiederci quanta sia la rispondenza rispetto a chi vogliamo essere e a ciò che vogliamo fare di noi. La domanda non è: "Ne ho voglia?"; bensì: "Quanto mi appartiene?", "Quanto mi accresce?", "Quanto mi rigenera?".

domenica 1 marzo 2009

Apocalisse e creazione IV

E' mia convinzione irriducibile che i vecchi siano eternamente laida, i giovani eternamente belli. La saggezza dei vecchi è eternamente opaca, l'agire dei giovani eternamente limpido. Quanto più si prolunga la vita, tanto peggio diventiamo. In altri termini, la vita umana è un processo rovesciato che conduce al declino, al crollo (Yukio Mishima)


La rigida bipartizione di Mishima, fortemente dualistica, può essere scardinata se comprendiamo vecchiaia e giovinezza come condizioni dello spirito. Passando dalla metafora biologica all'esperienza spirituale, lo stretto vincolo della freccia del tempo è abolito e contemporaneamente è aperto il luogo della libertà. Tale libertà è la libertà di negare se stessi, di dirsi un No! deciso e rimettersi in cammino verso la giovinezza spirituale.

mercoledì 25 febbraio 2009

Apocalisse e Creazione III


In passato sono stato ossessionato spesso dall’idea della perfezione, del compimento, del tutto torna; non concepivo che un attimo potesse passare senza essere vissuto pienamente, bruciato, arso al fuoco della vita piena. Solo ultimamente ho iniziato a comprendere che c’è dell’altro, della cenere che comunque rimane, sempre, la si voglia dimenticare oppure no.
Tentando di vivere l’immediatezza, nella pienezza della gioia che mi bruciava fino allo spasmo, fino al parossismo, pensavo che quella fosse l’unica vita possibile, il resto per me non era niente e non valeva il mio tempo.
Lungo quello stesso tempo, il mio, quello che mi ha portato fino ad oggi, ho capito che la cenere ha la stessa dignità del fuoco; ho capito che della cenere c’è e che non è fuori dalla mia portata, come fosse uno scarto, qualcosa che non mi riguarda, qualcosa che posso fingere di non vedere, dimenticare. Un po’ di cenere immersa in acqua è un nonnulla, si deposita sul fondo e rimane immobile inerte, eppure opacizza, sporca, contamina.
Non considerando la cenere, quel resto che non potevo né capire, né dominare, pensavo di poter vivere senza paura, esposto al pericolo del decidere di me ad ogni istante; pensavo di poter bruciare all’infinito, di non consumare ardendo, come acqua che è fuoco; ero sicuro di poter avere la veemenza del fuoco e la trasparenza dell’acqua, di poter essere insieme impulso e trasparenza scegliere.
Il fuoco mi attendeva, in ogni caso; mi attendeva non come fuoco astratto, solo pensato, ma come fiamma viva. Scegliere lucidamente non significa dominare gli eventi, decidere di sé ad ogni istante, come se fosse l’ultimo, significa spesso non fare i conti con la realtà, con i fatti bruti, con l’evento che ti sorprende per quanto è vero e reale, con quel qualcosa che c’è e ti si para di fronte, tu lo voglia o no, prima, dopo e nonostante te, i tuoi impulsi, le tue passioni.
La vita è l’impeto della fiamma e il suo calore, è la purezza e la trasparenza dell’acqua, della decisione lucida, ma è anche, senza che possa essere altrimenti, cenere, ciò che resta del fuoco, ciò che irrilevabile ai nostri calcoli, si impone allo sguardo e contamina le nostre pretese di giudicare in modo assoluto. Solo da poco capisco il valore della fatica, di quella vita che decisamente non è un film e non si risolve del resto in due ore o giù di lì. L’oggi mi troverà protagonista domani e le sue ceneri, che posso pur tentare di nascondere, non scompariranno. La sterilità della vita in genere, della mia esperienza esistenziale in certi momenti, la mancanza della potenza creativa certi giorni, sono parte di una vita, la mia come quella di ognuno, di cui non è calcolabile il compimento.
Per questo non si parla di filosofia, non si scrive di filosofia, ma si fa filosofia: la verità va fatta, e questo fare non significa creatio ex nihilo, bensì applicazione, sacrificio, abnegazione, fino anche all’annullamento di sé di alcuni momenti. Questo non per elogiare la sofferenza, per dire che la vita è sofferenza, ma per dire che la filia è un amore intermedio, che tende forse all’agape, ma è solo a partire dall’eros, e respira di tutti e due questi polmoni.
La vita è contraddittoria, ogni scelta è sempre esistenziale, mai semplicemente astratta, teorica. La vigilanza critica, la razionalità, l’analisi possono solo mostrare gli elementi in campo, ma la scelta sta ad ognuno, personalmente; non è mai una scelta "per sempre", ma si trova ogni volta esposta alla miseria, ai limiti, alla povertà dell’umano; ogni volta del resto la scelta è rivedibile, migliorabile, ampliabile, maggiormente comprensibile.
Per questo l’eccedenza, la pietra d’inciampo, non è che un monito, un segno che forse qualcosa può essere riconsiderato; in ogni caso la scelta di riconsiderare effettivamente l’impegno esistenziale è di ognuno, singolarissima e insostituibile: la vita altrui possiamo comprenderla ma non viverla. Possiamo compatire fino a prendere il posto dell’altro, a morire per l’altro, ma non possiamo soffrire la sua sofferenza.
Il compimento, una fine che non sia morte e consunzione, ma pienezza di vita, può essere solo sperata ogni volta, mai certa.

sabato 21 febbraio 2009

giovedì 19 febbraio 2009

Eugenio Montale, Ecco il segno...

Ecco il segno; s'innerva
sul muro che s'indora
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell'aurora.
Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.


"Le Occasioni" (Mottetti)