mercoledì 22 settembre 2010

Povertà I

Parlare di povertà è sempre un rischio. Da una parte stanno le banalità, dall’altra l’astrazione. Se parliamo di povertà materiale, l’evidenza è sotto gli occhi di tutti, o almeno di quelli che hanno gli occhi per vedere. Riferendosi invece alla povertà culturale, spirituale o educativa, è difficile capire precisamente che cosa s’intenda. Ci possiamo infatti chiedere: che cos’è la cultura? che cosa significa “spirito”? Che idea abbiamo dell’educazione?
Eppure in serate come questa mi chiedo se davvero, per parlare di povertà, si debba scegliere una parte; se davvero ci si debba schierare in questa eterna lotta tra due. Non sono forse i dualismi la malattia del nostro modo di pensare? Non è forse il dualismo che ci ha tenuti a battesimo e che forse ci piangerà una volta scomparsi?
Quella che io chiamo “povertà spirituale” del nostro tempo, della nostra società, della nostra epoca – scegliete voi – è solo un’astrazione tipica di un perdigiorno come me o c’è qualcosa di vero “sotto”?
Ma soprattutto: è necessario – nella pratica, nella vita, al momento di agire – “scegliere una parte”? È un’illusione pensare di poter “creare” una parte autonoma, autarchica, indipendente? Fino a che punto è possibile essere se stessi?
Non è uno slogan pubblicitario anche questo? Non è un inutile imballaggio anche l’ “essere se stessi”?
È possibile davvero ridefinire un linguaggio, scegliere le proprie parole e i propri significati, cristallizzare – con una decisione libera e assoluta – il flusso magmatico della “comunicazione”?

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