mercoledì 14 luglio 2010

Nel processo costante di disintegrazione di te

Uno

L'aria incendiata del tempo che fu fa brulicare di volti i tavoli vuoti, anneriti dietro le mura riverse. Un coccio di vetro raccolto da terra flette i contorni di un mondo, un mal di mare in bottiglia.
Gira e gira il vecchio tra i cumuli nudi, una carezza di polvere su due piedi imbiancati. Giorno dopo giorno naufrago in piedi, sciorina matasse di sogni sulle nocche arrossate, sporge la testa in avanti verso quel cielo verdastro affogato di nubi. Si ripara dietro al suo coccio fermandosi, come per un eclissi di sole: il raggio ampio dell'esplosione non gli rende che un'eco deserta di quei nomi che tesse incessante, dall'alba al tramonto.
Biascica la sua tela durante quest'inverno assetato, col sole coperto da sciami rossastri di polveri; tenta di catturare i ronzii delle ombre, ceneri e vento tra gli scheletri riarsi di muri, accenni di archi, navigli.
Il sonno lo coglie ogni notte in viaggio, tra circoli ed onde in quel suo camminare; si accascia dietro la breccia di un ponte, o dentro una buca, stringe macerie.
Dorme quel vecchio e sogna, fino al mattino; torna ogni volta a quel vento, in quella piazza sventrata, cerca e cerca quei volti fra i nomi, scava, sbroglia e tesse matasse di giorni, tra i sogni riversi.

Due

In un bar, la prima volta, Bianca, la sua mano che corre sui capelli, li intreccia, li snoda, i suoi occhi su un libro -"Celine", mi avrebbe detto poi- ogni tanto a inquadrare una ciocca, e poi di nuovo giù, sulla pagina, bassi.
Occupava lo spazio, lei così leggera, vicino alla finestra, mentre io, zuppo d'acqua, ero entrato così, come cercando qualcuno per dissimulare, poi seduto, con un caffè scuro, gocciolato anch'esso da qualche oscura sorgente.
Non beveva, lei, forse aveva finito, guardava fuori, per vedere la pioggia o per seguire, sul vetro, qualche rigagnolo d'acqua. Solo per poco.
Ricacciava gli occhi fra le righe sulle pagine, sorrideva ogni tanto, leggeva e io, sonnambulo, la seguivo nei suoi gesti, fra le parole nero, su bianco, sul vetro, uno specchio e i suoi capelli a ciocche, a righe, a strisce, pagine e pagine, di gocce di pioggia leggere, pesanti.
L'orologio in alto, sopra al bancone, segnava le cinque umide di quel mio pomeriggio. Non pioveva più. Venusiana, lei stessa, era tramontata da un po', dietro alla porta.
Ero stato fermo, io, di nuovo solo, da solo, immobile che il tempo passava, ed era passato, che il sole cuoceva, coperto, i piedi lontani che lei animava, di passi, spazi vissuti altri, in luoghi, diversi.

Siamo i cantori, noi dioscuri, delle notti disseminate di lampioni che si attraversano in gruppetti nel silenzio dello scalpiccio, secco, dei tacchi.
Siamo gli esuli, orfani noi ogni volta, della luce del giorno nelle ore passate al bancone, sempre curvi sulla prossima birra.
Siamo il sole, frangia noi, oscura, della nostra generazione. Siamo quelli del passo indietro, di chi guarda da lontano per vedere meglio, capire.
Siamo della razza dei Kroeger e degli Handke, di quelli che si scrive o si vive, ma forse anche no.
Siamo l'assalto, l'assalto agli occhi muti e alle bocche indifferenti, che non si sa bene neanche noi che c'è da fare.

Lama seducente, intera. Il suo corpo autoesaustivo, inorbitante. Davvero avrei voluto sapere se sulla linea di un corpo che geme si nascondesse il pieno del nulla o il tutto vuoto dell'appartenenza. Delle parole e lunghe linee di frasi e capelli in ciuffetti aggiustati dietro le orecchie rimaneva la pelle chiara sotto la luce opaca della finestra, l'incavo perfetto della vita che declinava verso l'inguine denso.
La sala di lettura di filosofia a piano terra ci aveva visti in occhiate scambiate reciproche ogni mezzo rigo, aveva rischiarato di sguardi quel tempo nudo di studi e gesti ideali mandati a vuoto, aveva visto il nostro primo avvicinamento.

-Cos'è che leggi?- mi ero approssimato con l'occhio lontano, falsamente disinteressato, assonnato.
Mi aveva risposto un nome mai udito, uno strano cantore di sogni e progetti da strattonare a due mani, da spremere, finché non ne fosse uscita almeno una goccia di realtà.
-Beata te che ci riesci. Sto facendo tardi ultimamente. Non si va mai a dormire prima delle tre e alzarsi presto è il solito dramma analcolico per menti furenti che si ripete ogni mattina. Sono già le undici e mezzo e avrò studiato venti pagine.-
Mi sorrise, a scrollare di dosso l'imbarazzo che a volte prende sentendosi scaricare addosso drammi essenzial-logistici di un periodo votato all'autoesaltazione, distruzione.
-Cos'è che studi?- mi improvvisò lei come gocciolando da quei suoi capelli castani, un po' arruffati e ripresi alla meglio perché non ricadessero in ampie ciocche sulla fronte.
-Mah...- mi atteggiai con aria scazzata da "lo faccio ma così, da un gradino un tanto superiore" -...filosofia.-
-Anch'io! Di che anno sei?-
-Del primo- le rivolsi en passant.
-Beato te, io sono già al terzo e sono un casino indietro con gli esami.-
Calcolai con le doti matematiche di emergenza che doveva avere tipo ventidue anni, contro i miei diciannove abbondanti. Tentai di nuovo col kulturale, per non irretire il discorso nelle solite differenze di età da rimarcare ogni secondo o corsi frequentati e non.
-L'altro giorno ti ho intravista in un bar che leggevi.-
-Quando?- inclinava la testa.
-Non so... pioveva. Doveva essere tipo giovedì o venerdì.-
-Può darsi... sì, venerdì.
-Che leggevi? Sembravi piuttosto presa.
-Celine, Viaggio al termine della notte, l'hai letto?-
-Un ottanta pagine- buttai lì- carico e teso di brutto, almeno come prima impressione.-
Annuì, fissandomi intensa nei suoi sguardi scuri, propiziatori.
-Ora leggo questo- additandomi una pagina di un libro dalla copertina rigida blu. Ne lessi qualche riga:

Ruberemo, lo giuro. Vi ruberemo il tempo, anche quello sufficiente a vederci passare. Non saremo, non saremo mai, almeno qui e ora, ma passeremo oltre. Tutto sarà nostro, tutto col niente che ogni giorno ci dà, tramonti, ore perse ad aspettare, ingorghi emotivi. Siamo tutto questo, tutto questo passare e aspettare, fermarci, quando già saremo scappati di nuovo.

-Io andrei a prendermi un caffè... non è che...-
Si alzò riaggiustando la maglietta poco sopra i jeans chiari.

Leggendo con le dita i suoi vertici e le sue ombreggiature, il centro della schiena, scendendo in basso e poi ancora il collo, digradando lateralmente, ricordavo quel primo incontro e sospiravo riflettendo sul rimasto e sul rimanente. In effetti dopo vi fu un gran parlare, per telefono e incontrandosi, magari in SS.ma Annunziata sui gradini tagliati dal sole, con gli occhi semichiusi in faccia al calore via via sempre più tiepido; ci furono le sere di sigarette spente e sguardi concitati ed entusiasmo a notti intere, distillato sulle frasi del poeta sconosciuto:

Ruberemo il ritmo. Il ritmo dei vostri piedi non lo troverete più e la voglia, di continuare a marciare in linea retta verso, sul e nonostante, il deserto. Faremo deserto, o vi sembrerà così, rubando il tempo del sonno, faremo mal di testa e rumore, sempre più vicini, ancora un po' più vicini. Canteremo forte, oltre la decenza, la decenza che percorre l'insonnia e le crisi di panico, le depressioni e i farmaci antiurticanti.

Ci fu il più e il meno, fino a quel bacio.

-Vado.- le dissi passandole una mano sul viso tiepido di locali stretti e birre, fumo e versi di poeti.
-Aspetta- mi bloccò la mano nella sua, come a voler bruciare quel momento in un solo contatto d'idee e profumi.
Fu il lampo del volere a lungo e del non aspettarsi niente, delle sue labbra che ascoltavano le mie unite, del dischiudersi della sua bocca nei suoni che senti ma non odi, il calore dell'ultimo indiato porto. Fu il colpo dorato dell'allora.

Avvicinando la testa lungo il collo al suo sospiro, dimenavo in me stesso quell'urgenza, il ricordo di quel portone scuro nel nostro primo cangiamento fisico notturno, ultraunione, tocco orfico di quel mare inodorato. Pensai che tanto c'era stato a determinare l'ora dei nostri corpi vicini, afferentesi e come mai prima declinanti nello scrosciare d'acqua di cascate e nubi, desideri.
Era ciò che c'era e l'assoluto, il respiro del lampo di un ora già scordato, il ritmo cangiante della Vita blu e rosa, il trasalimento. I suoi occhi chiusi e la bocca semiaperta, la pelle chiara sulla luna, richiamavano me stesso nel mutuo gorgo senza tempo, oltre il mare diradante di sospiri e fu tutt'uno, quella volta e sola acquamarina.

Ruberemo il niente, tutto il niente che c'è, i ricordi e il tempo perso; tutto quello che ci avete visto fare o dire, non lo avrete più, perché tutto sarà da allora nostro, sputato fuori in inchiostro e sogni interrotti e sangue, sangue e cicche spente e vino, rosso, per sempre.
Il gran trasalimento, il durare bruciando senza scopo, si svolse a lungo, sulle note di uno scambio intrasentito ogni momento. Parlare, baciare, volgere in concetto, abbracciare, ascoltare, piangere, manifestare, ridere, mangiare, dormire, progettare, furono un delirio di sogni ed attrazioni, cronopolari e bimagnetiche. Cadevano in quei momenti magliette, falsi sonni, scarpe e tristezze brevi quanto intense, lacrime e gonne lunghe, pantaloni, preoccupazioni vacue, angosce sterili. Saliva il ritmare di un mondo denso d'impressioni, del fuoco fatuo di noi due danzanti, del nostro scambio a mille volte il tempo, del sidro pulsante scuro e del vagheggiamento. Anno non fu incandescente e fuso quanto quello, come sole che brucia, acciaio roso e liquido, iride, metallo. Acuminai me stesso al punto di solcare il tempo come chiglia sotto l'onda, fino a giungere dritto in piedi un poco prima del di poi, risi, piansi proiettando poco, in gran parte respirai.
Ruberemo l'urgenza. Niente potrete dire di nuovo che già non vi avremo soffiato in partenza. Saremo sui rulli, in giro, a vuoto, ci direte, ma in moto, perpetuo. Saremo gli schemi mancati e mancanti, le visioni del mondo oltre le previsioni. Saremo i persi di vista, invisibili nello specchio del bagno, oltremodo scontenti di scegliere.

Ruberemo la scelta, la scelta di essere o meno, la scelta di saturare in modo alterno. Saremo saturi e poveri di ogni cosa, sceglieremo la terza possibilità, la consonante tra le vostre vocali di ammirazione, accondiscendente, vista la mala parata.
Ruberemo la voglia e il potere, la doccia la vasca e l'emissione, i messi i risultati e le code, la storia il futuro e le mance, i fogli l'inchiostro e il colore bluastro del cielo che albeggia. E' tutto nostro, fin d'ora: non aspettate, ma stringete forte le mani, se ci riuscite.
Ruberemo, senza misura e risparmio. Il resto sarà dietro, molto più in là, sempre in ritardo.

D'un colpo, come svegliandosi estasiati dal vaneggiare notturno col cuscino, i cieli di un novembre ci obnubilarono vicini, fiaccarono d'umidità il respiro, trascolorarono in cupi nembi ogni radioso mattino. Allora venne il tempo, come una dimenticanza, di quel nostro discutere per ore risentito, del veleggiare assorti tra possibilità remote, dell'angustiarsi, dello stare soli senza più toccarsi neanche in un abbraccio, della lite senza sbocchi. Cambiò l'istinto di trovarsi vicini, l'intesa che un tempo bruciava da ogni lato, venne il gelo fatto d'abitudine, di canali e solchi già passati, l'angoscia del futuro, notturni claustrofobici. Furono tre mesi d'embolia, che il duemilauno ci staccò alquanto tesi, litigando a sfinirsi di se stessi, non capendo perché il sentire potesse farsi così lento.
Tutto cambiò da un giorno all'altro, tutto svanì, l'entusiasmo, tutto, trascolorando.

Il secolo nostro trascolora, cazzo, di cirrosi fibromi e incazzature e le grida ci gettano distanti l'uno dall'altro, su una panchina che ora è buio, un'altra volta, buio nonostante i lampioni fiochi di neon opachi e fasci d'auto in corsa, frotte di gente, a piedi.
Il secolo nostro, amore, s'invola indiato, s'infinita, s'immerge assente nei silenzi che al telefono non sappiamo cosa dirci e taci, che sulle soglie del bosco non odo, ma odio, me stesso e le mie fasi, le mie stasi, depressivo, steso col capo a terra a credere di pensar qualcosa, che s'annebbia tutto ogni volta, ubriaco.

Il dopo fu l'assenza, di me più che di lei, il suo calore, che mancava dentro come sangue e pece a riscaldare; fu la dimenticanza e il riperdersi dietro schermi a disvanire, lo scolorare ogni oggetto o forma in lunghe code ad un bancone. Era l'uscire per forza ed ogni volta ormai la sera, fuggendo l'impasse e l'angoscia, tentando di gettare sopra tempo e cenere, sopra quel fuoco di domande che sbranava. Ero io in frammenti ed in quel gelo, a fuggirmi e scomparirmi innanzi, di fronte ad uno specchio o in un locale, sopra il ponte dei secondi o dentro un requiem, nelle ore.

Il secolo nostro, ardore, movimento, intona canti su corpi schiacciati l'uno contro l'altro, come tentando di passare oltre, ma si dice di fare l'amore, che altre espressioni non si usano, volgari, mentre ipocriti che siamo noi si scopa.
Il secolo nostro, lisca maculata, abbronzatura, è terminato coi giorni che non sai che cazzo fare e ora non c'hai tempo e sputi impegni e ridi e fingi che margine, così dici, ce n'è ancora.
Il secolo nostro c'innamora, fossa carsica, che essere ci sei, come si dice, al passo, ma è il passo appeso un poco incerto, duraturo del gambero.


Tre

Il vecchio ripete al tempo che soffia la sua storia, dirada stracci e grovigli ancora fumanti, trasceglie ricordi, sfuoca barlumi. Conta i passi al vento che passa, lacrima di polvere negli occhi aperti in circolo, in quel suo ancora cercare. Chiama se stesso tra le pareti ustionanti, dorme degli urti scoscesi dentro se stesso, si sveglia d'un tratto dopo uno degli ultimi crolli. Un fragore di nebbia nella notte recente lo svela tremante alle prime luci dell'alba. Col vetro verde che consuma fra le mani si avventura ancora un altro mattino verso la luce dubbia del giorno.
Ancora ti cerca, quel vecchio, stende la tela su tutta la piazza, sussurra ad ogni muro, batte ogni angolo, chiama la polvere perchè lo possa ascoltare. Racconta e racconta stringendo polvere e sogni, disegna luoghi e confini al tocco delle dita smagrite, soffia calore in piccole nubi veloci. Colora rovine e ricordi, prova a ridare la vita ai gelidi echi delle sue labbra spaccate.

La seconda esplosione giungerà improvvisa una notte, sulla piazza sventrata. Il boato sarà il canto di un nulla che spare; niente rimarrà allora di quella voce a brandelli, niente più volti o dolori, da ricordare.
«Il tuo sarà l'ultimo lo giuro, ma sparirà, per questo ti chiamo. Vorrei che sbucassi dall'ombra ferita di un tavolo vuoto, tra le rovine ammassate di un pilone, da terra. Vorrei ascoltarti parlare un'ultima volta ai bordi della buca dove ti sogno ogni notte. Non dici niente, mi guardi come allora e non parli. A volte penso di non essere nemmeno più io, che quei giorni non mi appartengano più, sfocati tra le parole che ripeto ogni giorno, come un rito per farti apparire. Mi abbandoni ogni attimo di più, ti sento franare dentro come mare che cade. Nè sole nè luna sotto questa volta di cielo. La tua pelle alla luce notturna non passa per questo coccio di vetro. Rovino di nuovo tra i nodi che sbaglio in questo oscuro tappeto di te. Vorrei stringerti come questi detriti ogni notte, per sempre. Vorrei ritrovarti e fuggire lontano, averti vicina come quei giorni, sottrarti al tempo che passa, proteggerti. Guardo ancora un po' avanti, ed è buio, lontano il cielo che stride, un'ultima volta. Nel processo costante di disintegrazione di te».

(2003?)

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